[effe] Utopie e processi degenerativi

- Sul legame tra utopia e distopia in Harry Sibelius -

di Roberto Bioy Fälscher, 10 Ottobre 2014

Credo che Mappe del 3000, il più originale e visionario romanzo dello statunitense Harry Sibelius, sia uno degli esempi più lampanti della differenza che esiste tra utopia e distopia. Due termini erroneamente considerati l’uno l’opposto dell’altro, forse per un eccesso di semplificazione della realtà. Come invece ci dimostra con grande precisione Sibelius, la distopia esiste quando l’utopia cessa di essere pensiero e si fa sostanza strutturata; quando l’ordine morale e politico di alcuni si impone sul funzionamento compulsivo della società; quando il mucido presente negli interstizi del progresso cresce e si diffonde senza alcun sospetto, ma inesorabilmente.

«Non è un caso infatti», sostiene lo scrittore, «che la fine delle ideologie nella seconda metà del Novecento abbia segnato anche la fine delle utopie».

Rispetto a Il vero figlio di Giobbe, primo romanzo distopico sibeliussiano, la cui architettura è pensata come un groviglio di storie senza causa né effetto, Mappe del 3000 segna un punto di svolta nella produzione dello scrittore di Richmond. Il testo, grazie a una struttura circolare, propone il paradigma Utopia/Distopia/Utopia che sostiene la tesi di un neoredento Sibelius secondo cui utopia e distopia sarebbero intrecciate, se non addirittura consequenziali. Le mappe disegnano così il profilo dei primi decenni del 3000, con i nuovi assetti geopolitici nati dalla volontà di perseguire una nobile causa,ossia equiparare le economie del sistema mondiale. Tuttavia questo obiettivo degenera nell’instaurazione di un nuovo colonialismo basato sul controllo di ogni singolo cittadino.

Questo concetto della degenerazione dell’utopia in distopia, mi sembra possa essere anche la spina dorsale che unisce i pur variegati racconti qui presentati. Adotta una telecamera di sorveglianza di Marco Lazzarotto ci mostra come l’intento di una mutua solidarietà tra i cittadini possa rispondere al bisogno voyeuristico e allo stesso tempo di controllo, proprio di una società individualista e perversa; Lifenet di Alessandro Chiappanuvoli descrive un futuro remoto in cui il divieto di usare la carta (per evitare i disboscamenti) ha portato a un controllo totale sulla comunicazione telematica; I troni di Saturno di Riccardo Romagnoli racconta un tentativo, poi finito in tragedia, di ricreare un’Arcadia nel cuore della Toscana; Una volta mi chiamavano Ronald di Luigi Ippoliti è addirittura una distopia della distopia, là dove si cerca di ricreare il mondo distorto di un McDonald’s in seguito a un disastro nucleare che ha sovvertito ogni forma di significato e di significante; il racconto di Alessio Belli, Non è un bel momento, sposta invece la distopia dal passato al presente, in un cortocircuito che aprirà un varco nelle riflessioni dei lettori sulla contemporaneità; infine, la raccolta di documenti, a cura di Luciano Funetta, relativi alla misteriosa quanto splendida città di Thamer-Za dimostra come l’utopica ricerca di un luogo migliore conduca unicamente alla follia o alla morte.

Lasciatemi concludere con una frase che Sibelius pronunciò davanti agli studenti dell’Università di Harvard, durante le sue Norton Lectures: «Se utopia e distopia sono l’una la degenerazione dell’altra, come credo fermamente, all’uomo non rimane altro che star seduto su una poltrona e attendere la morte, magari leggendo La repubblica di Platone o La città del sole di Campanella».

 

Il presente articolo è l’editoriale del primo numero di effe – Periodico di Altre Narratività, a firma di Roberto Bioy Fälscher, che ringraziamo per la disponibilità. 

 

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